Dunque: anche in questo romanzo, come in tutto quel che ho scritto, riverso le mie suggestioni. D’altronde dalle suggestioni la narrativa non può prescindere, le suggestioni sono il sale, anzi il lievito della narrativa. E in questo caso le suggestioni che cerco di trasmettere son moltiplicate dal fatto che il romanzo si svolge nel 600, epoca che incanta e al tempo stesso atterrisce, in quanto è infinita bellezza per le meraviglie create dai suoi artisti, ma anche infinito orrore, a causa delle convinzioni distorte che vigevano indiscusse. Ma in questo libro, oltre a trasmettere suggestioni, mi propongo un altro scopo: perché le convinzioni distorte di allora noi le credevamo scomparse e invece a sorpresa le stiamo vedendo riaffiorare. Sicché, descrivendo le conseguenze atroci della loro applicazione e ricostruendo il processo psicologico attraverso il quale le mie protagoniste, in virtù dell’amore, riescono a rendersi conto di quanto siano infondate e a ribellarsi riscattandosi, io, cerco, sia pur nell’ambito minimo delle mie possibilità, di mandare un messaggio a chi legge, per allertarlo contro le follie e le ossessioni che ci assediano in questa stralunata alba di millennio.
Ma quali erano le convinzioni distorte a cui mi riferisco ? In primis, quella secondo la quale la donna è per natura e volontà di Dio inferiore all’uomo e tenuta a restargli sempre sottomessa. Nel 600 la donna, ritenuta incapace di autogestirsi, dipendeva tutta la vita dall’uomo: dal padre, in mancanza del padre dai fratelli, e, dopo le nozze, dallo sposo. Una dipendenza totale che significava non solo controllo, ma diritto a disporre della sua sopravvivenza. Oggi questa convinzione che almeno nel mondo occidentale fino a qualche decennio fa pareva estinta o sul punto di estinguersi, pare riaffacciarsi. Seconda convinzione allora imperante: quella secondo la quale bisognasse evitare la mescolanza tra le varie qualità di sangue, e contaminare il sangue puro (del nobile) con il sangue impuro (dell’umile o del presunto diverso) fosse un sacrilegio da scontare con la morte. Beh, anche questa convinzione oggi riappare alla ribalta, insieme al disprezzo e al rifiuto per chi ha un’identità diversa, per fede, razza, cultura, o orientamento sessuale. Insomma, quel che voglio dire è che, anche se si svolge nel 600, il libro tocca argomenti attuali.
Comunque, a scandire il racconto, è soprattutto il discorso sull’amore. Perché, proprio in quanto illuminate dall’amore vero, l’amore che rifiuta di esser possesso e anzi inorridisce all’idea di poterlo apparire, le mie protagoniste, una madre e una figlia di nobile lignaggio, osano sfidare convenzioni e canoni dell’epoca. La ribellione costerà a entrambe un prezzo altissimo, ma consentirà la scoperta della propria identità e l’esperienza di una breve ma autentica felicità.
Nel libro è descritta anche la quotidianità della Napoli barocca: la carenza di rapporto tra genitori e figli (nelle famiglie nobili i bambini appena nati venivano tolti alle madri e affidati prima alle nutrici e poi ai precettori), gli spettacoli, la musica, le canzoni, l’immaginario collettivo (la familiarità con Orlando e gli altri protagonisti del ciclo carolingio, le leggende d’oltremare narrate ai figli dei padroni dagli schiavi saraceni).
Altri elementi: la peste, che ho inserito nella vicenda (anche se il libro l’ho scritto quando non immaginavo l’avvento del Covid), perché, col continuo incombere della morte che determina, fa emergere il peggio e il meglio dell’anima umana.
La natura: quella di Napoli che allora era un paradiso di selve e giardini solcati da una miriade di ruscelli, quella di Posillipo in cui era ancora percepibile la presenza del mito, e quella del borgo abruzzese dove i protagonisti si rifugiano nel tentativo di sottrarsi al contagio.
Poi il mistero: che si insinua nella trama con un evento inspiegabile avvenuto nel borgo di Santo Strato e prima ritenuto miracolo, poi interpretato come opera diabolica, con l’ossessivo ululare dei lupi nel buio, e, soprattutto, con la malia intrigante e sinistra del labirinto.
Infine: il libro constata l’inevitabilità del dolore, ma mostra pure come, malgrado tutte le occasioni di strazio e delusione che offre, la vita sia un continuo portento. E alla fine è la vita che trionfa.
Ringrazio Maria Teresa Steri per avermi ospitato. Vedete: i libri son come figli. E, come se fossero figli, chi scrive vuol farli vivere a lungo. Ma, affinché vivano, è necessario che i lettori seguano con emozione le avventure dei personaggi, immedesimandosi nelle loro incertezze, ansie, speranze, paure, gioie, sofferenze, al modo in cui in esse si è immedesimato l'autore. Quindi, far conoscere un proprio romanzo significa cercare un tramite per condividere l'esperienza vissuta scrivendolo. Che, di tutte, credetemi, è l'esperienza più appassionante. Perché si diviene altri, pur restando se stessi.
RispondiEliminaBelle parole, Giovanna, hai espresso anche il mio pensiero. E' stato un piacere ospitarti.
EliminaIl lessico usato nel parlare del tuo romanzo mi fa pensare che tu sappia trasmettere bene le suggestioni cui accenni. Complimenti e buona fortuna a te, Giovanna, e grazie a Maria Teresa.
RispondiEliminaGrazie a te, Grazia, per essere passata a leggere.
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