“L'ultimo dei Bezuchov” - Intervista a Marco Freccero
Ho tardato a scrivere di questo romanzo di Marco Freccero, non solo per mancanza di tempo, ma soprattutto perché volevo lasciar sedimentare le impressioni che ne avevo ricevute. Si tratta infatti di una storia particolare, distante dal genere che di solito leggo e con tratti inusuali rispetto alla narrativa dei giorni nostri.
La trama si dipana tra due tempi, passato e presente, e si concentra sull’incontro casuale tra due persone molto diverse, che si svolge in treno. Si viene subito immersi in un’atmosfera quasi surreale, mentre assistiamo allo scambio intenso e trascinante tra i due.
Maurizio Berberis è un seminarista dai seri principi, sicuro della propria vocazione, animato da una fede limpida e solida. Un personaggio puro in un certo senso, che viene turbato da qualcosa di semplice e inaspettato, il contatto con una persona che fin da subito susciterà in lui forti emozioni. L'ultimo dei Bezuchov, Carlo Alberto, è infatti un giovane che si presenta ben diverso dalla gente comune, e per questo colpisce il lettore tanto quanto il seminarista. Si è incuriositi, ma soprattutto ammaliati dalle sue parole, dal suo modo libero e semplice di pensare e di porsi rispetto alla vita. Presto veniamo a sapere che Carlo Alberto soffre di una malattia mentale. È un giovane ipersensibile, ingenuo, senza difese in un mondo come il nostro, in grado di incrinare ogni certezza in persone pronte a cogliere e rispettare il suo essere peculiare. Un personaggio che scatena immediatamente la voglia di scoprire tutto di lui, i suoi segreti, il mistero che porta con sé da sempre.
Da questo incontro durato il tempo di un viaggio in treno, il protagonista dunque rimane segnato, al punto da lasciarsi coinvolgere in modo repentino e intenso dalle questioni della famiglia Bezuchov e di chi vi ruota intorno. In particolare, il contrasto netto tra il materialismo della casata russa dei Bezuchov e la libertà interiore di Carlo Alberto fanno da perno per una storia intensa e profonda, ricca di spunti di riflessione, in cui si respira un’atmosfera di tempi lontani, pur nelle vicende immerse nei giorni nostri.
La storia ruota sopratutto intorno ai dialoghi tra personaggi diversi, in una sorta di ricerca esteriore e interiore del protagonista, che sembra alla fine impartirci un'importante lezione: nella vita non tutto può essere spiegato e svelato, anzi c’è un mistero grande dietro le piccole cose, nei rapporti umani e al di là delle diversità che sembrano allontanarci.
Come sempre una lettura che non lascia indifferenti, proprio come ci ha abituato Marco Freccero.
E a proposito dell’autore, lo avevo conosciuto per i suoi racconti della Trilogia delle Erbacce, ovvero le raccolte di piccole storie che hanno al centro personaggi che vivono ai margini o che subiscono duri colpi del destino. Ne ho parlato in un paio di interviste all’autore stesso (Non hai mai capito niente e La follia del mondo).
Tale singolarità (ovvero il focus su personaggi ai margini) l’ho ritrovata anche in questo romanzo, così come è stato piacevole ritrovare lo stile inconfondibile di Marco, asciutto, pulito e sempre diretto. Tuttavia, ho riscontrato anche importanti differenze, di cui parlerò nell’intervista che segue.
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Ciao Marco, benvenuto! Mi fa molto piacere parlare con te di questo tuo ultimo lavoro. Mi incuriosisce prima di tutto sapere qual è stato lo spunto per la storia e in modo particolare per il personaggio di Carlo Alberto.
Ciao Maria Teresa. Grazie innanzitutto per l’opportunità che mi regali.
Lo spunto è arrivato mentre leggevo il libro di Pietro Citati “Tolstoj”. Mi sono imbattuto nel nome “Bezuchov” (uno dei personaggi più importanti di “Guerra e Pace”), e quasi all’istante è arrivato anche Carlo Alberto e il resto della storia (compreso il finale lontano dall’Italia). Si tratta di una doppia “contaminazione” però. Da una parte abbiamo la matrice tolstojana; dall’altra invece Fedor Dostoevskij. Il mio è una specie di omaggio a due dei miei autori preferiti. Sono ricorso a essi perché intendevo “staccarmi” dalla Trilogia delle Erbacce, pur conservando con quei temi un legame ben forte ma in un certo senso “differente”.
Devo dire che mi è piaciuto molto il fatto che Carlo Alberto venga visto dagli occhi di un seminarista (in seguito sacerdote), e che quest’ultimo si presenti come un narratore senza giudizi a priori, anzi benevolo e curioso. Perché hai scelto proprio questa figura per raccontare di Carlo Alberto?
Direi che è stato ovvio scegliere quella figura, proprio perché c’è un legame con le erbacce. Ma là scrivevo di disoccupati, di donne rimaste spesso da sole a battersi in un mondo indifferente, che si commuove davanti a casi umani, ma quasi mai succede quando ha a che fare con persone in carne e ossa. Qui abbiamo due figure anch’esse ai margini, guardate con sufficienza, come se entrambi non avessero più nulla da dire, e fossero dei reperti di un mondo che scompare. Il seminarista, Maurizio, quando incontra Carlo Alberto è persuaso di poterlo aiutare cercando di indurlo a diventare “utile”. Lo invita a essere fiducioso: prima o poi troverà il suo “posto” nella società. Non può credere che sia proprio un malato a dargli una lezione. Vale a dire: non è necessario essere utili per vivere. Carlo Alberto (un nome che nelle intenzioni del padre doveva elevarlo a vette sublimi), è un particolare tipo di “erbaccia”. Crede che la sua malattia sia una risorsa, mentre i personaggi della Trilogia delle Erbacce spesso si trovavano in una situazione di isolamento, di disagio. E volevano fuggirne, in qualche modo.
Mi ha colpito anche la distanza emotiva che viene creata rispetto a Carlo Alberto. Cerco di spiegarmi meglio. Nei tuoi racconti si viene sempre catapultati dentro il personaggio e trascinati emotivamente nelle sue vicende. In questo romanzo, invece, hai messo molta distanza scegliendo un punto di vista meno coinvolgente. Posso chiederti perché?
Forse è dovuto al fatto che la storia è narrata in prima persona? No, non lo credo nemmeno un po’, perché di racconti in prima persona ce ne sono stati un discreto numero pure nella Trilogia delle Erbacce. In realtà non saprei risponderti. Credo che sia accaduto a mia insaputa. Oppure, ecco: questo modo di scrivere era per me piuttosto inevitabile perché mi sto congedando da un certo “mondo”, per esplorare sempre lo stesso mondo, ma a un altro livello. Forse questo mi ha indotto a usare una scrittura meno coinvolgente.
Uno dei nodi cruciali del romanzo è il dialogo tra Maurizio e Cesare. Una sorta di scontro benevolo di punti di vista. Ma si potrebbe anche definire come l’esternazione di una lotta interiore? Insomma, cosa ti stava a cuore mostrare con questa scena?
Sai che non lo so? Non scrivo i dialoghi per dimostrare qualcosa, ma perché i personaggi… Parlano! E in quel modo indicano quello che pensano, e come vedono essi stessi, il mondo. È il bello della scrittura: scrivi, senza chiederti che cosa vuoi mostrare. Scrivi quella scena, quel dialogo, perché “serve”all’economia della storia. Posso però affermare questo: Maurizio è un tipo che non sceglie quel cammino per essere al sicuro da contraddizioni o dubbi (anche se i suoi genitori la pensano in maniera diversa; soprattutto il padre). Forse desideravo raffigurare una persona (Maurizio appunto) che compie una scelta “senza logica”, ma proprio per questo si trova ad affrontare i medesimi interrogativi che gli altri, che pure seguono la “logica”, rivolgono a se stessi.
La storia parla, tra le altre cose, di amicizia, di legami che vanno al di là del contingente, che possono sorgere in modo rapidissimo e ciò nonostante non mancano di profondità e durano una vita. Tu credi in questo tipo di relazioni nella vita reale?
Sì, senza dubbio. Molte cose possono finire, e finire male o persino molto male. Anche un’amicizia, certo. Ma a volte, se si è davvero molto fortunati, accade che in pochi secondi scocchi qualcosa che ci accompagnerà attraverso gli anni, senza cedimenti o sbandamenti. Magari con pause, anche molto lunghe. Ma basta un incontro perché tutto si ricrei, rinasca. Viceversa, molte amicizie non superano l’usura del tempo e un successivo incontro, a distanza di anni, certifica solo la fine di quella relazione. Maurizio compie il viaggio sino a quell’isola delle Orcadi perché crede che anche eventi “definitivi” come la morte non lo siano affatto.
Il romanzo è anche un lungo viaggio da Savona fino alle Orcadi. Sappiamo che Savona è un luogo che conosci bene, ma perché proprio le Orcadi?
Be’, perché lì è nato e vissuto (ed è sepolto), lo scrittore e poeta George Mackay Brown. Sul serio, solo per quello. Pure questo è un omaggio a lui e a tutti quegli autori che non hanno mai realizzato grandi vendite e che per questo sento molto vicini. Nella sua ultima intervista affermava che non era interessato a come sarebbe stato ricordato negli anni a venire. A lui stava a cuore aver fatto buon uso del talento ricevuto. E poi mi piaceva spostare la storia da una città (ahimè) marginale come Savona, a un pugno di isole anch’esse piuttosto marginali (ma il turismo in questi anni le sta scoprendo).
Come sempre sono molto curiosa di scoprire che tipo di documentazione ha richiesto questo romanzo...
Il viaggio in aereo, per prima cosa. Quando Maurizio decide di andare, è ormai prete e con pochi soldi, quindi cerca i voli più economici. Poi ho dovuto cercare il B&B vicino all’aeroporto di Kirwall (la capitale delle Orcadi. Esiste davvero e si chiama “Straigona”). L’orario del traghetto che lo conduce all’isola di Egilsay e quello dell’autobus che da Kirkwall lo porta a Tingwall dove si imbarca. Anche qualche ricerca sui cibi di quelle isole, sui luoghi (la chiesa col campanile circolare esiste, così come la scuola trasformata in centro ricreativo sull’isola di Egilsay).
“L'ultimo dei Bezuchov” si chiude con molti interrogativi irrisolti, accompagnando il lettore a una conclusione destinata soprattutto a far riflettere. Eppure, a me è rimasta la voglia di sapere di più del mistero di Carlo Alberto. Ti è mai saltata in testa l’idea di scrivere un seguito?
No, credo che non possa esistere un seguito perché va bene così. Mi rendo conto che suona molto presuntuoso ma questo piccolo romanzo, ai miei occhi, rappresenta un approfondimento dei temi che erano presenti già nella Trilogia delle Erbacce. Non potevo, né volevo continuare a raccontare le “solite” storie (mi pare di aver ampiamente esaurito l’argomento), ed ero quindi alla ricerca di argomenti uguali e diversi. Potrei affermare che raffigurare la realtà, le cose che accadono, le difficoltà quotidiane non mi è più sufficiente, e voglio andare oltre. Spero di esserci riuscito almeno un poco raccontando questa storia.
Il titolo, la casata russa e altri dettagli narrativi, riportano questo romanzo a Dostoevskij e agli autori russi di cui parli spesso. Vuole essere solo un omaggio o qualcosa di più?
È un omaggio, esatto; ma non solo. Dopo la Trilogia delle Erbacce non volevo scrivere altri racconti, e soprattutto desideravo offrire una storia che “rompesse” con quello che avevo prodotto. Insomma: desideravo che i lettori fossero sorpresi, e credo di esserci riuscito perché molti di essi, lo so bene, sono rimasti spiazzati (o delusi?). Era esattamente l’effetto che desideravo produrre. Il futuro delle mie storie è, in un certo senso, deciso e tracciato.
So che attualmente stai lavorando a un altro romanzo (il tuo famoso progetto IOTA). Cosa avrà in comune con le altre storie e in cosa invece si differenzierà?
Sì, il #progettoIOTA. La storia è ambientata (tanto per cambiare) a Savona, ma negli anni Ottanta. Che cosa posso aggiungere senza svelare troppo? Che sarà molto più lungo (almeno 35 capitoli), con un sacco di personaggi (direi una quindicina?); e che forse stavolta approfondisco ancora di più certi argomenti come… Lo dico? Lo dico o non lo dico? Lo dico: il totalitarismo. Non so se ci riuscirò, ma dovrebbe uscire nel dicembre del 2020.
Ti ringrazio molto per averci raccontato di più de “L'ultimo dei Bezuchov”.
Grazie Maria Teresa per lo spazio che mi hai dedicato sul tuo blog. E un grazie anche ai tuoi lettori.
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E ora vi lascio con alcune informazioni sul romanzo e dove trovarlo.
L'ultimo dei Bezuchov
Due tra gli esseri più improbabili di questi tempi, un malato e un seminarista, si incontrano su un treno. Il primo torna a casa per salutare il padre che muore, il secondo rientra a Savona per una breve vacanza di una settimana.
Ma in quei pochi giorni il seminarista avrà l’opportunità di conoscere un essere impossibile da catalogare e da capire. E dotato di un talento particolare. Quando dopo alcuni anni, ormai prete impegnato e povero, riceverà la notizia della morte di quel “breve amico”, tornerà a indagare su quelle giornate lontane, sino a decidere di viaggiare fino alle isole Orcadi, dove l’ultimo dei Bezuchov ha scritto la parola “Fine” in un silenzio umile e commovente. |
Grazie ancora della tua ospitalità.
RispondiEliminaGrazie a te, approfondire storie così è sempre interessante.
EliminaBella intervista! Brava!
RispondiEliminaGrazie Nick! Ci sarebbe stato ancora tanto da chiedere, ma ho sempre il timore di esagerare con interviste chilometriche :)
EliminaA me è piaciuto, me lo sono proprio gustato come un sorso di whisky in una serata gelida (ma l'ho letto in luglio!) Certi dialoghi saranno pure scritti perché così parlano i personaggi... ma solo a Freccero i personaggi parlano così bene! ;)
RispondiEliminaEh sì, i dialoghi sono davvero centrali in questa storia, come in molte altre di Marco!
EliminaQuesta bella intervista mi ha fatto venir voglia di leggere L'ultimo dei Bezuchov che, comunque, era già in lista tra le mie prossime letture, devo cercare di anticipare.
RispondiEliminaGrazie Giulia, vedrai che ritroverai molti aspetti dei racconti, ma anche molto altro :)
EliminaHo apprezzato moltissimo la lettura de L'ultimo dei Bezuchov. La storia è arrivata dritta al bersaglio senza che io mi ponessi domande, perciò è un'ottima cosa poter sentire le tue, Maria Teresa, e le risposte di Marco. Lo stile asciutto e il senso del mistero mi hanno catturata e trattenuta fino alla fine, e mi capita ancora di ripensare alla storia, che ho letto appena uscita. Credo che anche questo sia un segno di qualità.
RispondiEliminaE' vero, quando di una storia si sente ancora l'eco dopo tanto tempo è segno di qualità. Io ho letto il romanzo all'inizio dell'estate ma per vari motivi ho deciso di rimandare l'intervista. Quando ho ripreso il mano il testo, lo avevo ancora ben impresso.
EliminaBella intervista!
RispondiEliminaGrazie mille! ^_^
EliminaConcordo, questo romanzo consacra la crescita scrittoria di Marco Freccero, del suo stile, dei suoi dialoghi e delle sue radici. A oggi nessuno dei suoi scritti mi ha mai deluso e sono pronta a scommettere che il prossimo mi sorprenderà in meglio sempre di più. Complimenti a entrambi per la bella intervista.
RispondiEliminaGrazie Nadia. A volte passare dai racconti a un romanzo può essere una sfida, ma nel caso di Marco direi che è riuscita benissimo.
EliminaÈ in lista di lettura
RispondiEliminaMarco sa che amo molto i russi, non vedo l'ora di leggerlo. Bella intervista, grazie a entrambi
Grazie a te, Elena!
EliminaRingrazio tutti (dovrei scrivere "tutte"), per i commenti :)
RispondiEliminaEheh pare proprio che tu abbia soprattutto lettrici ^_^
EliminaSempre più curiosa di immergermi in questa storia. Bravi, Marco e Maria Teresa per l'intervista.
RispondiEliminaGrazie Luz, non resterai delusa ^_^
EliminaHo appena finito di leggerlo e ho riconosciuto in pieno lo stile di Marco. Un romanzo bellissimo e toccante. Appena posso seguirà recensione su Amazon. :)
RispondiEliminaMi fa molto piacere che tu l'abbia apprezzato! Grazie per essere passata ^_^
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