Le ferite dei personaggi (1)

Oggi ho il piacere di ospitare Chiara Solerio che ci propone un'interessante riflessione sulla creazione dei personaggi basata sulle loro "ferite dell'anima". Il post che segue è la prima parte dell'articolo. 
In fondo, il riquadro per sapere di più sull'autrice, che ringrazio per il suo contributo.

“Le cinque ferite e come guarirle” di Lise Bourbeau, è un saggio psicologico che, oltre ad avermi aiutata molto nel mio percorso di evoluzione e di crescita, offre un supporto fondamentale alla mia scrittura consentendomi di rendere i personaggi più complessi e profondi e di indirizzarli verso comportamenti coerenti con la loro indole.

Esistono esperienze che ci impediscono di vivere assecondando la nostra natura più profonda. Provocano disagio, dolore, dispiacere. E, soprattutto, ci fanno paura. Sono vissute nella non-accettazione. Si nutrono di giudizi severi e di senso di colpa. Continuano ad alimentare le ferite dell’anima, che traggono origine da episodi vissuti nell’infanzia e dall’interpretazione che noi vi abbiamo dato.

La relazione fra un accadimento e una ferita è tutt’altro che automatica. Le medesime esperienze possono originare reazioni differenti a seconda del bagaglio psicologico pregresso che il soggetto porta con sé. Pensiamo, ad esempio, alla nascita di un fratellino. Il primogenito può sentirsi abbandonato dai genitori, oppure tradito. Può maturare una ferita da rifiuto, legata alla sensazione di non essere stato abbastanza per loro, di averli spinti alla decisione di fare un secondo figlio. A generare una ferita è la ripetizione dell’emozione associata ad episodi vissuti in modo simile, perché essa origina convinzioni inconsce nelle quali ci troviamo involontariamente a sguazzare, finché non riusciamo ad acquisirne consapevolezza.

Tuttavia, noi esseri umani non vogliamo soffrire. Abbiamo bisogno di proteggerci. Pertanto, tendiamo ad indossare una maschera. Mettiamo a punto una serie di comportamenti ripetitivi con i quali cerchiamo di nascondere, agli altri o a noi stessi, ciò che ancora non abbiamo voluto risolvere. Anche il nostro corpo finisce per adeguarsi alla ferita ed assumere fattezze che ne riproducono le caratteristiche. Talvolta, sviluppa specifici disturbi e malattie ad essa associati.

Di seguito, analizzerò sinteticamente due delle cinque ferite, e le loro maschere. In futuro, scriverò un altro guest-post dedicato alle altre tre. Purtroppo il tempo e lo spazio mi impediscono di approfondire al meglio, ma rimango a vostra disposizione, sia qui sia sul mio blog, per qualunque esigenza di chiarimento.

Ferita da rifiuto - maschera del fuggitivo


Il rifiuto è una ferita profondissima, perché la persona che ne soffre si sente respinta in tutto il proprio essere e, soprattutto, nel suo diritto ad esistere. A forza di alimentare il proprio dolore, perde la lucidità e non riesce più ad essere oggettiva: percepisce un rifiuto anche quando non c’è.

La prima reazione di una persona che si sente rifiutata è la fuga. Il bambino che si sta creando la maschera del fuggitivo vive molto spesso in un mondo immaginario. Si tratta per lo più di un soggetto buono, tranquillo, che non causa problemi e non fa rumore. Il suo obiettivo è quello di eclissarsi. Gli adulti dicono “hai sempre la testa fra le nuvole” ma, siccome non fa male a nessuno, lo lasciano in pace.

Da adulto, tale soggetto diventa un lupo solitario. Ha pochi amici e scarse relazioni sentimentali. Per paura di essere rifiutato, finisce per isolarsi spontaneamente. Entra allora in un circolo vizioso: indossa la maschera del fuggitivo per non soffrire e diventa talmente evanescente che gli altri non lo vedono più. Di conseguenza, si ritrova ad essere sempre più solo, trovando conferma dell’idea di essere rifiutato da tutti.

Talvolta, per assecondare il suo bisogno di fuga, tende a rifugiarsi nell’alcool o nella droga, in vizi che hanno lo scopo di alimentare i suoi sogni e le sue illusioni, di emarginarlo, di farlo sentire un outsider.

Tale maschera si riconosce fisicamente dal fisico, che è esso stesso fuggitivo e pare voler scomparire. Si tratta di un corpo che non vuole occupare spazio, solitamente smilzo, striminzito e contratto. Talvolta le spalle si incurvano, i polsi e le caviglie sono sottili. Spesso, c’è l’impressione di un blocco nella crescita fisica. Una parte del corpo può essere più piccola delle altre o può dimostrare un’età diversa. Talvolta, si ha l’impressione di vedere un adulto imprigionato nel corpo di un bambino.

La ferita influenza anche il modo di nutrirsi, in quanto l’essere umano alimenta il corpo fisico esattamente come alimenta quello mentale. Il fuggitivo, dunque, preferisce piccole porzioni e spesso gli si chiude lo stomaco quando ha paura o vive emozioni intense. Le persone anoressiche sono in prevalenza fuggitive.

La sua paura più grande è quella di essere colto dal panico. Pertanto, tende a creare intorno a sé un ambiente sicuro, una sorta di fortezza che lo renda inattaccabile.


Ferita da abbandono -  maschera del dipendente


Molte persone che soffrono della ferita di abbandono hanno descritto una mancanza di comunicazione, in giovane età, da parte del genitore di sesso opposto al loro. Lo trovavano troppo chiuso ed erano convinte di non interessargli affatto. Tendono dunque a crescere con l’impressione di essere poco nutrite sul piano affettivo e cercheranno di colmare tale vuoto attaccandosi, talvolta in modo maniacale, a chiunque dispensi loro cure e attenzioni.

Ciò che colpisce maggiormente, nel loro aspetto fisico, è la mancanza di tono. Solitamente hanno un organismo lungo e sottile, con un sistema muscolare poco sviluppato che sembra non riuscire a sostenere l’intera struttura. È come se il corpo avesse bisogno di aiuto. Ciò rispecchia esattamente quanto accade dentro la persona: il dipendente crede di non riuscire a fare nulla da solo, e di avere bisogno di qualcuno che lo sostenga. Se la frase tipo del fuggitivo può essere considerata non voglio, quella del dipendente è sicuramente non posso.

Gli occhi sono grandi e tristi, sembrano voler attrarre l’altro con lo sguardo. Spesso si ha l’impressione che abbia le braccia troppo lunghe, e che non sappia cosa farsene. Alcune parti del corpo possono essere cadenti o flaccide, ad esempio le spalle, i seni, le natiche, le guance o la pancia.

Fra le cinque tipologie caratteriali, quella del dipendente si presta meglio delle altre a diventare vittima, a crearsi problemi e malattie per attirare l’attenzione. Inoltre, drammatizza molto. Un minimo incidente può assumere proporzioni gigantesche. Ad esempio, se il suo partner non risponde al telefono perché magari è sotto la doccia, lo da per disperso e va in paranoia. Talvolta, gli piace a sua volta aiutare gli altri e svolgere il ruolo del salvatore: è un modo per sentirsi importante.

La sua paura più grande è la solitudine. Teme di non poterla gestire. Per questo, è disposto a sopportare situazioni difficilissime, prima di porvi fine. Prendiamo ad esempio una donna che vive con un alcolizzato o che viene picchiata. Non vuole lasciare il partner, perché il distacco le provocherebbe un dolore ancora più grande di quello che già sopporta quotidianamente. Tende dunque a non vedere i problemi e preferisce credere che tutto vada bene.

Altre piccole curiosità:


1) Le tre ferite che rimangono da analizzare e le maschere corrispondenti sono le seguenti:
  • Ferita da umiliazione - maschera del masochista 
  • Ferita da tradimento - maschera del controllore 
  • Ferita da ingiustizia - maschera del rigido 
2) Esse possono presentarsi separatamente, oppure contemporaneamente, e possono essere più o meno marcate. Spesso la ferita da abbandono e quella da tradimento si accompagnano, così come quelle da rifiuto ed ingiustizia. Ma le combinazioni possono essere anche diverse.

3) La categoria a cui noi apparteniamo, ovvero gli scrittori, presenta per la maggior parte fuggitivi. I cantanti, invece, sono prevalentemente dipendenti e gli attori controllori.

4) Il primo passo per guarire la ferita è riconoscerla, accettarla ed “accoglierla”. Il secondo passo è riconoscere che la maschera, anche se sembra proteggerci, ci provoca più danni e problemi della sofferenza che vuole nascondere. L’esempio che fa l’autrice è quello di una ferita alla mano: la ferita guarisce quando la medichiamo, non quando nascondiamo la mano in tasca o dietro la schiena. La guarigione avviene quando prendiamo contatto con la ferita, accettiamo il fatto di aver sofferto e anche di aver provato rabbia verso chi ci ha fatto soffrire. A questo punto possiamo sbarazzarci della maschera e concederci di essere noi stessi.

Chiara Solerio

L'AUTORE DI QUESTO GUEST POSTMi chiamo Chiara Solerio e scrivo da sempre. Ho lavorato come giornalista e come copywriter. Da poco, dopo anni di silenzio, mi sono riavvicinata alla narrativa. Ho in cantiere la partecipazione ad alcuni concorsi e sto scrivendo il mio primo romanzo. Sono appassionata di psicologia e cerco di metterla al servizio delle mie opere.
Il mio blog: http://appuntiamargine.blogspot.it
Profilo Google Plus: Chiara Solerio

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Commenti

  1. Grazie a te per l'opportunità che mi hai dato :)
    Rimango a disposizione dei lettori per chiarire eventuali dubbi o curiosità, o approfondire meglio le due ferite qui descritte. Purtroppo l'argomento è vastissimo, ed io ho dovuto scegliere alcuni aspetti su cui focalizzarmi. In realtà ci sarebbe moltissimo da dire.

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    1. In parte ho ritrovato la prima ferita nel protagonista del mio attuale romanzo, anche se lui ha paure diverse da quella che descrivi.
      Sicuramente queste classificazioni psicologiche possono offrire delle tracce per la creazione di personalità più complesse.

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    2. Esatto, possono rappresentare delle indicazioni, delle linee guida. Occorre inoltre precisare che per preparare l’articolo ho dovuto semplificare moltissimo… in realtà si potrebbe fare un’analisi molto più profonda

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    3. Purtroppo per preparare l’articolo ho dovuto semplificare moltissimo, in realtà si potrebbe fare un’analisi molto più profonda delle ferite. Ho riassunto gli aspetti più evidenti, ma nel libro ne vengono descritti moltissimi... alcuni si presentano, altri no, a seconda del soggetto. Quindi, segnarmi la ferita nella scheda, è un modo per avere delle linee guida se attribuire certi comportamenti oppure no.

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  2. Bel post, complimenti a Chiara e a te che hai ospitato questo suo articolo interessantissimo.
    Io chissà che tipologia sono... quale ferita ho! Esiste la ferita della stronzaggine? :p

    Moz-

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    1. Grazie Moz, tu sei sempre gentilissimo! ;)

      Non saprei inquadrarti in una ferita perché non ti conosco, e il mio quadretto è molto sintetico. Sul libro ad ogni ferita sono dedicate circa 50 pagine. Però conosco le mie, questo si :)

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    2. Grazie Moz... la mia casa virtuale è sempre aperta a chi ha da dire cose interessanti!

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    3. @Chiara: forse ho la ferita del cazzaro... non so che dirti XD

      @anima: abbiamo una visione molto simile dei nostri spazi^^

      Moz-

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  3. Ammetto di avere verso la psicologia un misto di fascinazione e diffidenza, un istintivo rifuggire da ogni etichetta. L'anno scorso, a un corso di aggiornamento tenuto da psicologi, ci hanno fatto una sorta di complicato test di personalità. Alla fine le persone risultavano divise in 16 gruppi e, come hanno detto gli psicologi, le indicazioni erano per forza piuttosto generiche e universali. A me è un po' sembrata la versione scientifica dello zodiaco, ma ammetto che il mio profilo ci prendeva abbastanza. Ho pensato di usare i profili come spunto per dei personaggi, ma poi non l'ho mai fatto. Penso che comunque possano essere degli spunti utili, come quelli che hai proposto tu

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    1. Ti riferisci all'indicatore Myers-Briggs? L'ho fatto anche io anni fa, nel mio caso ci ha preso parecchio. In effetti anche le idee su cui si basa quel test potrebbero essere utili per la creazione dei personaggi. Le etichette possono essere pericolose, ma anche utili se le si usa in modo flessibile. Sono "spunti" come dici.

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    3. Ciao Tenar,
      non conosco l’indicatore di cui parli ma mi documenterò. Le teorie della Bourbeau mi interessano molto, non solo per quel che riguarda il discorso delle ferite: ha un approccio molto legato alla bioenergetica ed alle filosofie orientali che in passato ho trovato molto utile per comprendere me stessa e togliere un bel po’ di maschere.
      Quando definisco un personaggio ho la tendenza ad inserire in scheda più elementi possibili, facendo in modo che siano perfettamente coerenti fra loro. Nel corso della narrazione, posso scegliere di utilizzarne alcuni, piuttosto che altri. Tendo ad individuare anche dettagli minimi, compresi piccoli gesti e abitudini quotidiane. A volte non li utilizzo poi nella storia. Altri invece si. Talvolta mi trovo ad inventarne di nuovi, anche in sede di revisione… ma è bello averli a portata di mano.

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    4. In effetti stavo per scrivere le stesse considerazioni di Tenar. Dal momento che io stessa ho un carattere mutevole, considerato poi che nell'enneagramma delle personalità (tanto per citarne un altro) è ammesso il cambiamento del proprio enneatipo nel corso della vita, mi diventa difficile inquadrare un personaggio in un determinato profilo. Ma anche combinando i profili, il rischio mi sembra quello di creare personaggi stereotipati, che rientrano comunque in categorie. Mentre molte personalità sono inafferrabili.

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    5. Sono d'accordo che esiste il rischio di stereotipare. Ma quando mai questo rischio viene meno? è sempre in agguato, qualunque sia la nostra "fonte di ispirazione". Spesso dipende da scarsa cura, o da semplice pigrizia. Per cui è sbagliatissimo adottare passivamente uno di questi profili, per avere la "pappa pronta". è giusto invece utilizzarli, se si ritiene opportuno, per dare maggior luce e profondità a personalità già complesse. Prima di inziare a scrivere ho dedicato un mese intero a definire i personaggi principali, proprio con lo scopo di umanizzarli il più possibile. Mi auguro che poi il risultato sulla carta sia buono. Per il momento, pare di si :)

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  4. Certo ogni spunto è valido e può essere rielaborato. Come commentavo sul'ultimo post di Alessio Montagner su Penna Blu, che parla di neuroestetica letteraria, trovo gli apetti neurologici e psicologici connessi alla scrittura molto interessanti, ma sento molto che l'analisi del fattore umano non lo esaurisce. Due più due non sempre fa quattro, quando si parla di umanità, ed è questo il bello. Poi sono capace di perdermi in un testo sulle malattie mentali, ma quando scrivo tendo a non sfruttare consapevolmente ciò che ho imparato, forse per non rischiare di strizzare i personaggi in qualche mio schema mentale. Comunque è tutto materiale "da costruzione", perciò grazie Chiara. :)

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    1. Brava: hai centrato il punto. Più si sa, meglio è. Spetta poi a noi passare dalla teoria alla pratica, selezionare, utilizzare al meglio ciò che abbiamo studiato libri. Posso leggere mille manuali, ma soltanto sedendomi davanti al pc posso imparare a scrivere. Stessa cosa vale per i personaggi: bisogna provare e riprovare, farli muovere, agire e sbagliare, finchè non diventano perfetti, almeno per noi :)

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  5. Maschera da Fuggitivo. Mi ha fatto paura nel leggerla.

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  6. Articolo molto interessante e chiaro come il tuo nome, grazie! Sono spunti di riflessioni utili non tanto per adattarvi eventuali personaggi, quanto per capire meglio alcune loro dinamiche, che un autore peraltro può mettere sul piatto (leggi: sulla pagina) in maniera del tutto spontanea. Credo che in ogni romanzo debba esistere almeno un personaggio con “ferite”, a qualsiasi genere esse appartengano, un personaggio in cui ci possiamo riconoscere o con cui possiamo simpatizzare. Probabilmente le "ferite" sono il vero motore della narrativa.

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    1. Ti ringrazio molto per i complimenti, e concordo pienamente con quanto scrivi. Hai centrato lo scopo del mio articolo.

      Inoltre, staccandosi dai personaggi, conoscere le ferite è anche un modo per conoscere se stessi. Consiglierei la lettura di questo libro a chiunque, a prescindere dall'uso che intende farne. Parola di ex dipendente ed ex "controllora" ;)

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  7. Non sono una scrittrice, né ho il piacere di potermi concedere a letture che non siano prettamente inerenti al mio lavoro (maledetto da tanti, ma forse più da noi stessi commercialisti), ma qualcosa sulle ferite dell'anima l'ho scritto anche io qualche settimana fa. Nessuna ricerca particolare che non sia la mia esperienza di vita e la forza che in me ho voluto trovare, più di vent'anni fa, per imparare a "saper dove guardare" e riempirmi il cuore di gioia alla vista del mondo che mi vive intorno.
    Nonostante questa forza e la fortuna di aver saputo scegliere una vita d'incanto, certe ferite tornato sovente a sanguinare, rubando ragionevolezza al mio pensare.
    Nel mio blog "Di Palo in Frasca" le mie divagazioni sull'argomento.
    Grazie per l'attenzione prestata a chi, come me, ha di queste ferite sempre pronte a rivivere e alla opportunità di far riflettere su quanto esse sappiano indurci in errore, nostro malgrado.

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  8. Grazie a Voi, davvero!!!
    Siamo il risultato delle nostre esperienze e molti (come me) il risultato di ciò che ci ha feriti l'anima. È così difficile prendersene cura già per se stessi, quasi impossibile per gli altri che capitano sul nostro cammino e neanche immaginano quanto faccia male anche solo una parola "sbagliata".

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  9. Un post davvero bellissimo. Aspetto la seconda parte. Complimenti all'autrice.

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